VI

CARATTERE E FUNZIONE DELL’IRONIA ARIOSTESCA

Nel precedente capitolo, parlando dei paesaggi ariosteschi, ho ricordato, tra quelli totalmente fantastici, il paesaggio della luna, sulla quale Astolfo, dopo molti viaggi sull’ippogrifo, viene accompagnato da San Giovanni col carro d’Elia: proprio Astolfo, che si presenta in fondo come il piú pazzo tra tutti i paladini di Francia, diventa curiosamente colui che viene destinato a ritrovare, nella luna, il senno del piú saggio dei paladini, Orlando. Questa configurazione paradossale di uno dei nodi piú importanti della trama del poema ci introduce subito a parlare dell’«ironia» ariostesca, fortemente ed eccessivamente sottolineata specie nell’Ottocento come elemento fondamentale del poema, mentre noi dobbiamo vederla come uno tra i molti suoi motivi, evitando di considerarla come la chiave capace di spiegare tutta la poesia ariostesca.

Tutta la costruzione di questo cielo della luna, dove Astolfo va a ritrovare il senno di Orlando, in mezzo ad uno stranissimo, iridescente coacervo di cose che gli uomini hanno perdute e che sono finite in quel cielo superiore, rivela già il carattere tipico della «ironia» ariostesca, il suo particolare accento e la sua aderenza alla linea vitale del poema. Si veda almeno una parte del bellissimo elenco dei beni perduti dagli uomini e finiti in quel paesaggio lunare: elenco tutto percorso da una sorridente e variata onda musicale, che è il corrispettivo di una lucida e serena coscienza dell’irrazionale sotteso nei sentimenti e nelle sicurezze dell’uomo, della variabilità estrema del loro atteggiarsi, in una specie di mondo caleidoscopico, visto a pezzi, scomposto:

Non pur di regni o di ricchezze parlo,

in che la ruota instabile lavora;

ma di quel ch’in poter di tor, di darlo

non ha Fortuna, intender voglio ancora.

Molta fama è là su, che, come tarlo,

il tempo al lungo andar qua giú divora:

là su infiniti prieghi e voti stanno,

che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,

vani disegni che non han mai loco,

i vani desidèri sono tanti,

che la piú parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giú perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.

[...]

Ami d’oro e d’argento appresso vede

in una massa, ch’erano quei doni

che si fan con speranza di mercede

ai re, agli avari principi, ai patroni.

Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,

et ode che son tutte adulazioni.

Di cicale scoppiate imagine hanno

versi ch’in laude dei signor si fanno.

[...]

Di versate minestre una gran massa

vede, e domanda al suo dottor ch’importe.

– L’elemosina è (dice) che si lassa

alcun, che fatta sia dopo la morte. –

Di varii fiori ad un gran monte passa,

ch’ebbe già buono odore, or putia forte.

Questo era il dono (se però dir lece)

che Costantino al buon Silvestro fece.

(XXXIV, 74-75, 77, 80)

(qui un atteggiamento nettamente anticlericale viene sfumato con una punta di apparente rispetto, «se però dir lece», che finisce per diventare anche piú assertiva)

Vide gran copia di panie con visco,

ch’erano, o donne, le bellezze vostre.

Lungo sarà, se tutte in verso ordisco

le cose che gli fur quivi dimostre;

che dopo mille e mille io non finisco,

e vi son tutte l’occurrenzie nostre[1]:

sol la pazzia non v’è poca né assai;

che sta qua giú, né se ne parte mai.

(XXXIV, 81)

L’ironia ariostesca appare dunque come il corrispettivo della lucida e spregiudicata intelligenza rinascimentale dell’autore, che in qualche modo smonta miti e credenze razionalmente non sostenibili; espressione di un’epoca che non ha piú ideali rigidi e dogmatici e che sente fortemente la varietà e la volubilità della vita, il continuo scambio tra saggezza e pazzia, simbolizzato, come abbiamo già detto, dal fatto che proprio Astolfo contribuisce al rinsavimento di Orlando, messo in evidenza, con una ironia sottile leggermente affiorante su una fluida onda musicale, nelle ottave centrali del famoso episodio, quando Astolfo, dopo aver recuperato, con l’aiuto di San Giovanni, alcune cose che sulla terra aveva perduto, arriva al luogo dove è riposto il senno venuto a mancare agli uomini:

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,

ch’egli già avea perduti, si converse;

che se non era interprete con lui,

non discernea le forme lor diverse.

Poi giunse a quel che par sí averlo a nui,

che mai per esso a Dio voti non fêrse;

io dico il senno: e n’era quivi un monte,

solo assai piú che l’altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,

atto a esalar, se non si tien ben chiuso;

e si vedea raccolto in varie ampolle,

qual piú, qual men capace, atte a quell’uso.

Quella è maggior di tutte, in che del folle

signor d’Anglante era il gran senno infuso;

e fu da l’altre conosciuta, quando

avea scritto di fuor: «Senno d’Orlando».

E cosí tutte l’altre avean scritto anco

il nome di color di chi fu il senno.

Del suo gran parte vide il duca franco;

ma molto piú maravigliar lo fenno

molti ch’egli credea che dramma manco

non dovessero averne, e quivi dénno

chiara notizia che ne tenean poco;

che molta quantità n’era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,

altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;

altri ne le speranze de’ signori,

altri dietro alle magiche sciocchezze:

altri in gemme, altri in opre di pittori,

et altri in altro che piú d’altro aprezze.

Di sofisti e d’astrologhi raccolto,

e di poeti ancor ve n’era molto.

(XXXIV, 82-85)

Dopo il canto limpido di quest’ultima ottava – quasi la voce di una saggezza smagata e superiore che riassume i motivi, sparsi gustosamente nell’ottava precedente, in un’unica sorridente elegia – ritorna subito una sottile ironia con l’immagine di Astolfo che recupera il suo senno ritrovato là, accompagnata dall’avvertimento appena accennato che lo perderà ancora: scambio leggero, alternarsi continuo, nella vita dell’uomo, di pazzia e saggezza, di razionalità e irrazionalità.

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse

lo scrittor de l’oscura Apocalisse.

L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,

e par che quello al luogo suo ne gisse:

e che Turpin da indi in qua confesse

ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;

ma ch’uno error che fece poi, fu quello

ch’un’altra volta gli levò il cervello.

(XXXIV, 86)

Naturalmente l’ironia ariostesca ha anche dei precisi obbiettivi, diffondendosi su certi aspetti della vita del tempo che l’Ariosto sente ormai giunti al tramonto, piú chiusi dal velo dell’ipocrisia che dotati di storica verità.

Si ricordi, da questo punto di vista, la stessa configurazione dell’inferno – dove pure Astolfo, a un certo punto del suo viaggio, discende – che è raffigurato come un luogo in cui gli unici peccatori che si incontrano sono le donne che non hanno corrisposto ai desideri dei loro amanti. In questo modo l’Ariosto mostra una visione assai scettica, assai ironica, assai poco, se si vuole, religiosa, dell’oltremondo, i cui problemi lo interessano assai scarsamente. Non che egli assuma mai posizioni di protesta, di critica alla chiesa da punti di vista dottrinali e teologici: la sua posizione di fronte alle questioni metafisiche e religiose è di un sostanziale disinteresse, legato però ad un atteggiamento sostanzialmente polemico, specie di fronte alle false virtú, all’untuosa ipocrisia e al falso ascetismo, che egli considera comunque assurdo e irrealizzabile.

Acquistano allora un preciso significato alcuni passi dedicati alla figurazione di personaggi apparentemente santi e venerabili, che all’improvviso rivelano in loro l’esistenza dei piú bassi appetiti, come l’episodio dell’eremita, «ch’avea lunga la barba a mezzo il petto, / devoto e venerabile d’aspetto» (II, 12, vv. 7-8), il quale «parea, piú ch’alcun fosse mai stato, / di conscïenza scrupolosa e schiva» (II, 13, vv. 3-4), ma che pure, incontrata Angelica, a un certo punto, rivela la comune brama degli uomini: «Quella rara bellezza il cor gli accese, / e gli scaldò le frigide medolle» (VIII, 31, vv. 1-2).

Si può ricordare ancora l’episodio dell’angelo Michele, che, mandato da Dio sulla terra a cercare il Silenzio, crede di poterlo ritrovare nei monasteri, dove dovrebbe stare di casa:

Credendo quivi ritrovarlo, mosse

con maggior fretta le dorate penne;

e di veder ch’ancor Pace vi fosse,

Quïete e Carità, sicuro tenne.

Ma da la opinïon sua ritrovosse

tosto ingannato, che nel chiostro venne:

non è Silenzio quivi; e gli fu ditto

che non v’abita piú, fuor che in iscritto.

Né Pietà, né Quïete, né Umiltade,

né quivi Amor, né quivi Pace mira.

Ben vi fur già, ma ne l’antiqua etade;

che le cacciâr Gola, Avarizia et Ira,

Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade.

Di tanta novità l’angel si ammira:

andò guardando quella brutta schiera,

e vide ch’anco la Discordia v’era.

Quella che gli avea detto il Padre eterno,

dopo il Silenzio, che trovar dovesse.

Pensato avea di far la via d’Averno,

che si credea che tra’ dannati stesse;

e ritrovolla in questo nuovo inferno

(chi ’l crederia?) tra santi ufficii e messe.

Par di strano a Michel ch’ella vi sia,

che per trovar credea di far gran via.

(XIV, 80-82)

La polemica laica dell’Ariosto appare priva di forte protesta, con l’attenzione rivolta soprattutto a quelle gonfie e ornamentali personificazioni: l’ironia è controllata e composta in un’aria volutamente ingenua, che esprime non tanto una volontà di protesta e di satira, quanto appunto il senso di superiorità raggiunto ormai dal poeta rispetto a quei valori ascetico-monastici.

Questa «ironia» dell’Ariosto non è dunque un semplice capriccio, ma si mostra legata ad una sua prospettiva della vita, che lo porta continuamente a ironizzare i valori scaduti e non piú vivi, ai quali egli sa ben contrapporre il suo senso profondo della libertà e della varietà della vita, in tutti i suoi piú autentici e spesso nobili e generosi aspetti.

Si veda il tono ancor piú scaltro e sottile, superiore, con cui si presenta la figura dell’eremita, tutto pieno della sua vuota sicurezza, che accompagna Isabella, dopo la morte di Zerbino: quando s’imbattono in Rodomonte, questo monaco cerca di ribattere alle profferte d’amore che il Saracino rivolge alla fanciulla e di persuaderlo a lasciarla andare per la sua strada, somministrando vani discorsi spirituali e cosí provocando un gustoso effetto grottesco nel suo contrasto con il ribaldo e istintivo Rodomonte:

Il monaco, ch’a questo avea l’orecchia,

e per soccorrer la giovane incauta,

che ritratta non sia per la via vecchia,

sedea al governo qual pratico nauta,

quivi di spiritual cibo apparecchia

tosto una mensa sontuosa e lauta.

Ma il Saracin, che con mal gusto nacque,

non pur la saporò, che gli dispiacque [...].

(XXVIII, 101)

La consumata perizia del monaco è quella apparente di chi non si appoggia su di una base concreta, reale; il suo gesto ampio, la sua compunzione cattedratica, nella quale si insinua la gravità con cui un domestico spiega sulla tavola le tovaglie e i cibi, sono atteggiamenti propri di chi si fida retoricamente e irrazionalmente in un idealismo privo di addentellati nella realtà, vacuo e ciarliero, incapace di operare concretamente: un simile idealismo è uno degli obbiettivi della sottile e sicura ironia ariostesca.

Rodomonte rappresenta, davanti a questo vuoto idealismo, l’ostacolo del reale che con un semplice atto di forza ne annulla la tronfia vanità; e l’Ariosto si diverte in un gioco gustoso di ipotesi sulla sorte del monaco, che vale a sostenere ancor piú la sua superiorità umana e artistica rispetto al mondo da quello rappresentato:

Poi che l’empio pagan molto ha sofferto .

con lunga noia quel monaco audace,

e che gli ha detto invan ch’al suo deserto

senza lei può tornar quando gli piace;

e che nuocer si vede a viso aperto,

e che seco non vuol triegua né pace:

la mano al mento con furor gli stese,

e tanto ne pelò, quanto ne prese.

E sí crebbe la furia, che nel collo

con man lo stringe a guisa di tanaglia;

e poi ch’una e due volte raggirollo,

da sé per l’aria e verso il mar lo scaglia.

Che n’avenisse, né dico né sollo:

varia fama è di lui, né si raguaglia.

Dice alcun che sí rotto a un sasso resta,

che ’l piè non si discerne da la testa;

et altri, ch’a cadere andò nel mare,

ch’era piú di tre miglia indi lontano,

e che morí per non saper notare,

fatti assai prieghi e orazioni invano;

altri, ch’un santo lo venne aiutare,

lo trasse al lito con visibil mano.

Di queste, qual si vuol, la vera sia:

di lui non parla piú l’istoria mia.

(XXIX, 5-7)

A questo idealismo appoggiato a ipotesi vacue e falsamente sicure, l’Ariosto oppone non un puro scetticismo, ma un suo sano ed umano sentimento di valori profondi e insieme concreti: e un grande esempio ne sarà proprio l’episodio della morte di Isabella, a cui nulla ha giovato la tronfia sicurezza dell’eremita, ma che saprà affermare la sua fedeltà alla memoria di Zerbino con una eroica quanto concreta e non retorica determinazione; allora l’ironia sparirà, e prevarrà un tono di drammaticità misurata ed elegiaca.

Oltre ai molti episodi grotteschi, ironici, comici del poema, il sorriso ariostesco s’insinua a volte anche in episodi inizialmente impostati in maniera assai diversa. Possiamo prendere come esempio il celebre e centrale episodio dell’impazzimento di Orlando, che da toni mesti e dolenti, e poi fortemente drammatici, trascorre, senza sforzo e stonatura, ad un comico intriso di grottesco.

Orlando, mentre va alla ricerca di Angelica, a un certo punto del viaggio capita nei luoghi che hanno visto gli amori fra quella e Medoro, un povero soldato saraceno. L’episodio comincia in toni lenti e quasi svagati, ma poi si allarga in un continuo crescendo, fino a toni piú intensi e drammatici, quando Orlando vede incisa su di una pietra, all’entrata di una grotta, una scritta, in cui Medoro ha esaltato la propria felicità amorosa:

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto

quello infelice, e pur cercando invano

che non vi fosse quel che v’era scritto;

e sempre lo vedea piú chiaro e piano:

et ogni volta in mezzo il petto afflitto

stringersi il cor sentia con fredda mano.

Rimase al fin con gli occhi e con la mente

fissi nel sasso, al sasso indifferente.

(XXIII, 111)

In questa ottava bellissima e profonda si rivela il primo lampo, ancora umano, della pazzia, nell’insistenza con cui Orlando, come smemorato, ha il bisogno di accertarsi piú volte della verità e rilegge l’epigrafe, nella frenesia con cui le parole si ripercuotono sullo spavento crescente del cuore: resa perfetta di un dramma che incorpora elementi essenziali della psicologia umana e un’acutissima diagnosi della nascita del dolore.

Poi appare ancora uno svogliato riaffermarsi dell’istinto vitale, che non può ammettere la verità che lo distrugge:

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come

possa esser che non sia la cosa vera:

che voglia alcun cosí infamare il nome

de la sua donna e crede e brama e spera,

o gravar lui d’insoportabil some

tanto di gelosia, che se ne pèra;

et abbia quel, sia chi si voglia stato,

molto la man di lei bene imitato.

(XXIII, 114)

E il tono si mantiene altissimo quando Orlando, penetrato nella capanna del pastore (che ha ospitato i due amanti e che, illudendosi di rasserenare con una storia quell’ospite che è giunto cosí melanconico, gli ha narrato da testimonio gli amori di Angelica e Medoro), cerca di coricarsi, di dormire nello stesso letto che aveva già accolto i due giovani sposi.

Questa conclusïon fu la secure

che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,

poi che d’innumerabil battiture

si vide il manigoldo Amor satollo.

Celar si studia Orlando il duolo; e pure

quel gli fa forza, e male asconder pòllo:

per lacrime e suspir da bocca e d’occhi

convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

Poi ch’allargare il freno al dolor puote

(che resta solo e senza altrui rispetto),

giú dagli occhi rigando per le gote

sparge un fiume di lacrime sul petto:

sospira e geme, e va con spesse ruote

di qua di là tutto cercando il letto;

e piú duro ch’un sasso, e piú pungente

che se fosse d’urtica, se lo sente.

In tanto aspro travaglio gli soccorre

che nel medesmo letto in che giaceva,

l’ingrata donna venutasi a porre

col suo drudo piú volte esser doveva.

Non altrimenti or quella piuma abborre,

né con minor prestezza se ne leva,

che de l’erba il villan che s’era messo

per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

Quel letto, quella casa, quel pastore

immantinente in tant’odio gli casca,

che senza aspettar luna, o che l’albóre

che va dinanzi al nuovo giorno nasca,

piglia l’arme e il destriero, et esce fuore

per mezzo il bosco alla piú oscura frasca;

e quando poi gli è aviso d’esser solo,

con gridi et urli apre le porte al duolo.

(XXIII, 121-124)

Il tono diviene addirittura terribile in quest’ultima ottava che è veramente una delle piú grandi del poema, avviata in tono lento e deciso, allargata poi nel movimento e nell’apertura di un paesaggio notturno, sospesa in un attimo di tregua apparente, e in ultimo risolta nell’erompere del grande grido finale. Su questo tono arriviamo all’esplodere della pazzia d’Orlando, in un quadro d’immensa ricchezza evocativa, con l’ultimo cenno di umanità di quel titanico e dolente rivolgersi al cielo come a qualcosa insieme di superiore, di ostile, di inattingibile e pur di invocabile:

Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo

a volo alzar fe’ le minute schegge.

Infelice quell’antro, et ogni stelo

in cui Medoro e Angelica si legge!

Cosí restâr quel dí, ch’ombra né gielo

a pastor mai non daran piú, né a gregge:

e quella fonte, già sí chiara e pura,

da cotanta ira fu poco sicura;

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle

non cessò di gittar ne le bell’onde,

fin che da sommo ad imo sí turbolle

che non furo mai piú chiare né monde.

E stanco al fin, e al fin di sudor molle,

poi che la lena vinta non risponde

allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,

cade sul prato, e verso il ciel sospira.

(XXIII, 130-131)

Ma poi, improvvisamente, il paladino impazzito comincia a svolgere le sue piú curiose e capricciose avventure: con la sua forza fisica cieca e sterminata egli ucciderà tutti i pastori che gli si faranno incontro, distruggerà abitazioni e capanne, e tutto questo sarà modulato sui toni piú apertamente grotteschi e comici, come nella descrizione dello scempio che Orlando fa di alcuni pastori:

Viste del pazzo l’incredibil prove

poi piú d’appresso e la possanza estrema,

si voltan per fuggir, ma non sanno ove,

sí come avviene in subitana tema.

Il pazzo dietro lor ratto si muove:

uno ne piglia, e del capo lo scema

con la facilità che torria alcuno

de l’arbor pome, o vago fior dal pruno.

Per una gamba il grave tronco prese,

e quello usò per mazza adosso al resto:

in terra un paio addormentato stese,

ch’al novissimo dí forse fia desto.

Gli altri sgombraro subito il paese,

ch’ebbono il piede e il buono aviso presto.

Non saria stato il pazzo al seguir lento,

se non ch’era già volto al loro armento[2].

(XXIV, 5-6)

Dunque, un alto giuoco di continue metamorfosi in arabeschi sinuosi, in gusto di colori, in minuscole sinfonie grottesche. Ed ecco poi l’addensarsi di una sinfonia tumultuosa e rusticana, nel rapido e gustoso sorriso con cui l’Ariosto trascorre su di un variopinto esercito contadinesco che si prepara ad attaccare il pazzo:

Già potreste sentir come ribombe

l’alto rumor ne le propinque ville

d’urli, e di corni, rusticane trombe,

e piú spesso che d’altro, il suon di squille;

e con spuntoni et archi e spiedi e frombe

veder dai monti sdrucciolarne mille,

et altritanti andar da basso ad alto,

per fare al pazzo un villanesco assalto.

(XXIV, 8)

Ironia, sorriso, comicità e grottesco affiorano cosí a volte anche in episodi dapprima impostati su registri diversi, mostrando il carattere della suprema disinvoltura ariostesca, capace di mescolare e di variare i toni e i ritmi anche all’interno di uno stesso episodio. Ma va pure sottolineato che è inesatto dire che tutto l’Orlando Furioso è dominato interamente da questi toni giocosi e ironici: molti episodi ed elementi schiettamente epici, drammatici, elegiaci, non toccati o lambiti solo esternamente dal sorriso, dimostrano che un’immagine dell’Ariosto tutta in chiave ironica e comica è essenzialmente sbagliata.


1 Nota l’occurrenzie nostre: tutto quello che ci può capitare.

2 Nota novissimo dí: il giorno del giudizio.